Sovente il mio snobismo sprezzante sulla diffusione della cultura alta nelle masse, che impoverisce nella volgarizzazione i significati sublimi dei miei
auctores riducendoli a iconcine svuotate di significato (quando ad esempio vedo
Emily Dickinson o
Kafavis citati nelle bacheche dei social network accanto Fabio Volo, o
Teresa d'Avila accanto a Susanna Tamaro, o
Bowie accanto a Morgan, nell'assoluta abolizione di ogni gusto e discernimento, nell'ingoio indiscriminato che abolisce senso ed utilizzo delle papille gustative estetiche), questa nobile invincibile tensione del mio animo intellettuale, suffragata da sconfortanti evidenze, mi induce a chiudermi nel mio dorato Sancta Sanctorum, invocando in ginocchio la distruzione globale sotto forma di fiammeggiante vendetta divina.
E' proprio in quei momenti che, con materna ma severa compassione, il pungolo della memoria sfodera la più potente arma per tacitare le eruzioni stanche del mio ego.
A 11 lessi i miei primi versi di
Charles Baudelaire.
La strofa centrale di "Elevatìon":
"Fuggi lontano da questi morbosi miasmi,
vola a purificarti nell'aria superiore,
e bevi, come un puro e celestiale liquore,
il chiaro fuoco che colma i limpidi spazi."
|
il giovane Charles Baudelaire |
Quell'invito semplice e sublime agì sulla mia svanente innocenza come il più potente dei mantra.
Decisi di dedicare la mia vita alla ricerca spirituale, di sputare sulle convenzioni sociali, di sprezzare fatiche e ambizioni sociali, per votarmi unicamente a quell'unico supremo obiettivo.
Tutto era vano e inutile, a meno che mi avesse condotto a realizzare la promessa di quei versi.
La mia vita aveva un senso, quello di dissetarmi di Bellezza e nutrirmi di Verità.
Un ragazzino sensibile, eh?! Non c'è che dire...
Anzi, si, qualcosa c'è da dire.
Qualcosa che spiega l'assunto iniziale.
Lessi quei versi su un albo di
Dylan Dog.
Numero 63, "La clessidra di pietra".
Di recente, ho approfittato della fruibilità degli autori che consentono i social network per ringraziare Claudio Chiaverotti, lo sceneggiatore di quell'albo, che probabilmente non immaginava di dare vita con quella citazione a un futuro yogi.
Lasciai quindi Dylan Dog per passare al personaggio che forse ne ha ispirato il nome, Bob, e attraverso lui si schiuse la porta della ricerca: da
Baudelaire a
Blake, da
Blake a
Dante, da
Dante ai
Sufi, dai
Sufi ai
Veda.
Nel frattempo, al Liceo, incontrai
LRNZ.
Come già scritto su queste colonne, con lui e con Daniele Capuano, spesso grazie a lui, scoprii altri sherpa della mia ricerca,
Simone Weil, Tarkovskij, Nietzsche, Holderlin, T.S. Eliot, Camus e molti altri.
Parallelamente,
LRNZ mi faceva scoprire le meraviglie del grande fumetto: la perfezione aurea di
Moebius, il genio traboccante e commovente di
Andrea Pazienza, il napalm dialettico-visuale di
Scozzari, la potenza michelangiolesca e truce di
Liberatore, il nitore classico e la sapienza di
Tezuka.
Dylan Dog divenne per me il nemico, il sinonimo di tutto ciò che era parodia del Vero e del Bello, manifesto di appiattimento, omologazione, banalità. Mai più letto per molti anni.
Eppure, dentro di me sapevo che la coppa del nettare di cui mi inebriavo mi era stata porta proprio da quelle pagine che in quel momento avrei bruciato.
Ora il cerchio si chiude.
Oltre alla grande contentezza personale (che poco importa a chi legge), nella mia visione culturale del fumetto questo evento segna una svolta.
Se
LRNZ, oltre al suo evidente sbalorditivo talento, riesce a portare in Dylan Dog la sua cultura, la sua intelligenza, il suo profondo amore filologico per il fumetto, la sua conoscenza trasversale pressoché unica dell'arte visuale (profusa
QUI), non solo farà un enorme dono ai frequentatori di Craven Road, ma accompagnerà l'intero settore in un salto di qualità e gusto che potrebbe divenire epocale (e va dato il giusto credito all'intuizione di
Recchioni in questo senso, ancora più ardita nei casi di
Aka b e
Ausonia).
Ecco
QUI la nostra conversazione a riguardo su
Fumettologica!
Buona Lettura