"La scala di Giacobbe" di William Blake |
DC: Il primo dono che tutte le fiabe danno, tutte le grandi e umili fiabe che sono reperibili nelle raccolte di cui parlavamo, anche le fiabe letterarie migliori degli ultimi secoli, il dono di ogni fiaba è quello di poter essere letta, come i testi sacri, a diversi livelli. Fra le offerte più grandi che ogni fiaba fa c’è la possibilità innanzitutto di una lettura ermetica, cioè alchemica. Non c’è quasi fiaba che sfugga a quell’itinerario quintessenziale che è appunto l’itinerario della Materia, intesa però alla maniera antica, come pregna di vita e quale manifestazione divina. Poi c’è una lettura astrologica, che è poco frequentata perché l’astrologia è diventata ormai quasi del tutto “giudiziaria”, come avrebbero detto nel Rinascimento, cioè una pseudo-scienza deterministica in cui si cercano di solito conferme o alibi al proprio carattere...
CZ: L’astrologia indiana, per tornare a confronti
precedenti, è invece un oceano di rivelazioni davvero illuminanti.
DC: Beh, l’India ha conservato intatti quasi tutti i
legami con la sapienza antica. Non è un caso, il grande libro di Giorgio
de Santillana e Hertha von Dechend, Il Mulino di Amleto, ci
mostra proprio come la cultura neolitica...
CZ: ...avesse iniziato il processo di elaborazione del
mito come “scienza esatta”.
DC: Esatto. C’è poi la lettura mistica. Le fiabe più
grandi sono senza dubbio un itinerario mistico, che può essere dotato di una
trasparenza quasi liturgica, come ad esempio nel caso di Raperonzolo, o Il Ramo
d’Oro di Madame d’Aulnoy, o La Bella e la Bestia. Oppure
questo può essere velato sotto il grande tema, popolare e arcano insieme,
dell’ermetismo inteso nel senso di mercurialità.
Quella capacità di cogliere l’opportunità al di là di ogni ristretto moralismo
(il che ovviamente non significa immoralismo).
Penso al Gatto con gli stivali, penso alle
tante favole della tradizione araba accolte nella grande cornice de Le
Mille e una notte.
Illustrazione per "LeMille e una notte": la Principessa narra al Sultano. |
CZ: Un’attitudine che ritorna, magari depauperata di
questa ricchezza di significati ermetici, anche in Boccaccio.
DC: Certo. Lì c’è il più piacere di godere della burla
riuscita. Però sicuramente nel piacere di novellare…
CZ: Sì, è più un’attitudine pre-rinascimentale che di
derivazione sapienziale.
DC: …fai bene a vedere la continuità, sicuramente
nella fiaba classica la figura del protagonista di solito è un ragazzo di poche
doti, o almeno è considerato tale, una persona “stupida” ma proprio per questo
aperta allo stupore. Spesso i genitori lo considerano un buono a nulla,
vogliono liberarsene, a volte è un deforme (perché troppo piccolino come Pollicino, o perché nato con dei
difetti fisici troppo pronunciati, come Enrichetto
dal ciuffo). Tuttavia, questa sua “indefinibilità” sociale (questa
inafferrabilità affine a quella del Mercurio come ‘elemento’ alchemico) lo
rende spesso un candidato alle virtù apparentemente meno mistiche, ma che in
realtà sono metafora perfetta delle stesse. Un certo opportunismo, inteso come capacità di cogliere il kairòs
...
CZ: Il celeberrimo carpe
diem nel senso più alto...
DC: Sì, sappiamo che la Bibbia, che è un testo sacro
sul quale si possono dire tante cose, nel bene e nel male, ha esempi in questo
senso...
CZ: L’‘opportunismo’ con cui Matteo riconosce Gesù nel
momento della conversione, come magnificamente immortalato dal Caravaggio...
"La Vocazione di S.Matteo" del Caravaggio, nella Cappella Contarelli di S.Luigi dei Francesi a Roma |
DC: Certo, oppure con cui Giacobbe truffa il fratello,
che non è una cosa da prendere ad esempio, ma è sicuramente un gesto
carico di una saggezza difficile da cogliere all’inizio, per una persona
ingenua. Ora, per non arrivare a modelli così santificati dall’esperienza
religiosa, penso al già citato Gatto con gli stivali. Una
fiaba in cui l’essere mercuriale per eccellenza, il felino, trae dal
nulla, soltanto con le proprie parole, la potenza e il prestigio di un povero disgraziato,
appunto il proprio padrone che non aveva nient’altro che lui, lo fa passare per
un grande gentiluomo, per un potente, truffa l’Orco con un trucco che
conosciamo anche nella favolistica araba, cioè ne stimola la vanità di essere
potentissimo, fisicamente e psicologicamente, ma con un’unica tara. Gli dice:
“Scommetto che, con tutte le tue doti, non sei capace di diventare piccolo come
un topolino”... e sappiamo qual è l’esito...
"L'incontro di Giacobbe ed Esaù" di Francesco Hayez |
CZ: Ed è illuminante, parlando di mercurialità,
ricordare come questo sia uno dei poteri di Shri Hanumana, l’archetipo induista
del messaggero angelico, da cui culturalmente derivano appunto Hermes e
Mercurio... egli ha il potere di diventare infinitamente grande o infinitamente
piccolo, perché rappresenta il controllo sull’azione, e soprattutto, essendo il
messaggero fedele ed assolutamente devoto a Dio (in questo caso nell’aspetto di
Shri Rama), è affrancato dalla vanità.
Una rappresentazione classica di Shri Hanumana |
DC: Esatto, questo è il punto.
DC: Infatti, la défaillance dell’Orco
consiste non nel non poter diventare infinitamente piccolo, ma nel cedere alla
propria vanità, alla tentazione della prova che gli impone il gatto. Non a caso
gli suggerisce di diventare un topolino… Un caduta alla quale Hanumana durante
un combattimento magico probabilmente non si sarebbe mai sottoposto... Ecco,
questa grande trasparenza archetipica della fiaba, che può essere velata anche
da questi doni di un ermetismo più popolare: ma c’è anche un altro dono. Un
dono che a me non sembra trascurabile, soprattutto di questi tempi, anche se è
difficile da cogliere e da ricevere, che è la sua grande assenza di
sentimentalismo. Strano a dirsi, perché spesso si percepiscono le fiabe come...
CZ: ...qualcosa di stucchevole...
DC: Esatto, come un mondo tutto rosa, in cui tutto
finisce sempre bene...una sorta di interpretazione hollywoodiana o disneyana
delle fiabe che non a caso è un atteggiamento tipicamente novecentesco e
contemporaneo, ma già affiorava nel secolo precedente, col suo culto della
durezza e degli affari etc...
È singolare, invece, come chiunque legga le fiabe con
un minimo di onestà, non dico di attenzione, semplicemente leggendo quello che dicono,
letteralmente si accorge di come esse siano una forma di educazione alla vita così com’è. Alla sua crudeltà, alla
crudeltà del desiderio ad esempio. Quante fiabe iniziano con un Re che non
riesce ad avere figli, ed inventa qualsiasi artificio, anche illecito e
vergognoso, pur di averli. Quante fiabe non nascono con una voglia, con un
capriccio, con qualcosa di profondamente umano e profondamente onesto, da
ammettere. Quante fiabe non ci insegnano, come lo stesso Pinocchio, a diffidare della giustizia umana: Pinocchio finisce in
galera perché è stato derubato, e ne esce ammettendo di essere un malandrino,
perché c’è l’amnistia. Quindi, ecco, quante fiabe, quasi tutte, non ci
insegnano, anzi, ci insegnano! senza un briciolo di sentimentalismo, a vedere la
vita cosi com’è…
CZ: E, invece, paradossalmente, quando si dice
“fiabesco” si intende il contrario. Le fiabe mostrano il volto duro e per nulla
edulcorato o zuccheroso della vita.
DC: Diciamo che mostrano tutto, e mostrando tutto mostrano sia le strade polverose su cui ai
ragazzi un po’ sciocchi, o che imparano a loro spese la saggezza, succede di
tutto, anche cose terribili come essere fatti prigionieri da qualche
antropofago o da qualche altro innominabile personaggio... ma insegna, ripeto,
anche la capacità di vedere le fate, di scalare fagioli magici e di arrivare a
palazzi incantati dominati da orchi che, alla fine, mostrano sempre il loro
punto debole... perché ce n’è sempre qualcuno che ne sa una più del Diavolo, in particolare sua Nonna, come ci insegna
una fiaba famosa dei Grimm. Da tutti i punti di vista le fiabe sono un
insegnamento talmente prezioso che consegnarne una qualunque, possibilmente fra
le grandi, ad un bambino, significa veramente dargli, come dicevo all’inizio,
l’ultimo vestigio, l’ultima traccia di una civiltà tradizionale, in giorni in
cui quasi tutto congiura per distoglierci sia da questa chiarezza – spietata –
di sguardo, che da questa apertura, carica di stupore, nei confronti di quella
dimensione immaginale che sta “tra” il cielo e la terra, che non è né il mondo
duro dei cosiddetti, sottolineo cosiddetti, “fatti”, né il mondo etereo e
astratto, apparentemente, del puro Spirito.